Nel 1611 questa donna, qui autoritrattasi, fu violentata da un pittore di nome Agostino Tassi. Nel 1611 la violenza sulle donne veniva vista come un gesto “sociale”, non tanto individuale e personale. C’era persino la possibilità di un matrimonio riparatore, pronto lì per mettere a tacere, in famiglia e in società, la violenza subita. Nessuno nel 1611 concepiva l’idea che una violenza sessuale fosse un qualcosa di non quantificabile emotivamente e di non accettabile moralmente ed eticamente.
Il modo in cui ognuno, uomo o donna, reagisce a uno stupro non è prevedibile e non è ipotizzabile.
La donna violentata si chiamava Artemisia Gentileschi, era una pittrice, ed era, a suo modo, una rivoluzionaria per il tempo in cui è esistita. Questa donna ha affrontato lo stupro come volle la sua famiglia, sperando, per non ledere la dignità di alcuno, in un matrimonio che poi non arrivò mai.
Un anno dopo, scoperta la realtà delle cose e realizzata l’impossibilità di sposare Agostino Tassi, il padre decise di portare a processo il pittore. Durante il processo Artemisia Gentileschi fu doppiamente umiliata, perché le venne chiesto il perché di tanta attesa, il perché di tutto quel tempo. Come se lei in fondo in fondo avesse voluto subire violenze o come se lei stesse mentendo e in realtà fosse una donna di facili costumi. Come se poi una donna di facili costumi dovesse rendere conto a qualcuno dei suoi costumi. Ma era il 1611, non il 2017.
Nel 2017 le cose non sono cambiate affatto, e ci sono ancora i moralisti che vomitano i loro pareri su come si devono comportare le persone violentate, su cosa devono fare le donne e su come si devono sentire.
La strada verso una parità di genere è ancora molto lontana, ma ora come allora è sempre tempo di prendere posizione.