Tra macerie e rovine: Absolutely Nothing di Giorgio Vasta


Cercando un varco nella piccola folla radunata nel locale, ho guardato fuori il deserto rossastro e poi di nuovo dentro, la gente, la ragazza bionda che aveva preso a danzare piano, e tra gli squilibri e intermittenze l’unica percezione chiara era che il deserto, esaltando per contrasto il presentimento dei corpi, è il teatro naturale del desiderio fisico, tanto più se il corpo è quello di una ragazza bionda che si alza, raggiunge il bordo di una pedana e si mette a ballare sulle note riverberanti di Georgia on my mind, il pubblico che batte le mani a tempo, le palme di plastica che oscillano coinvolte nel generale fragore, un cane bianco che sbuca e abbaia all’organista, le bottiglie di birra strette tra il palmo e le dita, e poi, all’interno di quel senso di regolata casualità generato dalla festa, di nuovo la ragazza bionda che sfila le infradito e continua a ballare scalza […].

In Death Proof, Quentin Tarantino, decide di esplorare l’erotismo nella forma estetica del b-movie, e così Vanessa Ferlito, in infradito, dà vita ad una delle scene più erotiche del film. Scena che tra le altre cose si conclude con la bruciatura della pellicola, una messa in scena estetica per risolvere una situazione legata alla trama.

Esiste dunque un’estetica che incardina le storie e le fa evolvere ancor prima della loro costruzione. Di fatto alla fine della scena noi non sappiamo niente di come si è evoluta la serata messa in mostra da Tarantino, ma è su quel che noi non vediamo che si genera l’interesse per ciò che abbiamo visto.

Ma per comprendere questo tipo di struttura è necessario fare un passo indietro e arrivare al padre di questa costruzione fondata sull’assenza: William Shakespeare, che in Macbeth scrive: “Nothing is but what is not”. È in questa assenza, in ciò che non viene raccontato, che avviene qualcosa e la scrittura con questo qualcosa deve fare i conti.

Partendo da questi due impianti si può iniziare a lavorare sul testo di Giorgio Vasta, Absolutely Nothing, innanzitutto perché sono due impianti – quello dell’estetica che performa la narrazione e il nulla che preme sugli avvenimenti – dichiarati all’interno del libro, ma anche perché senza affrontare questi aspetti il libro si schiaccia per ridursi ad un diario di viaggio.

Bisogna iniziare quindi da questi due aspetti per capire cosa avviene all’interno del viaggio che Giorgio Vasta e Ramak Fazel compiono nei deserti americani. A metà del testo circa, in poche righe, Vasta scrive espone il progetto di scrittura:

“Così scrivevo, è finito il viaggio. Ma non finisce ancora il suo racconto. considerato che, per dirla con Macbeth e con Ramak, nothing is but what is not, c’è ancora altro da far accadere, ancora altra esistenza da dare a ciò che non è mai accaduto.”

Questo avviene a metà del testo perché il viaggio raccontato finisce a metà del libro, perché il racconto da subito si mostra come non lineare, gli avvenimenti non si susseguono, ma procedono per altri percorsi non temporali. Scardinando il sistema temporale già Vasta annuncia che qualcosa, nella forma racconto, viene meno. Al contrario avanza l’aspetto riguardante ciò che non è accaduto. D’altra parte cos’è un viaggio? È un percorso che viene compiuto da un punto (storico) ad un altro punto (storico) che diventa la meta. E anche nei confronti della meta Vasta ci mette in guardia:

“Raggiungendo la Jeep mi aspetto di sentirmi sollevato, senza più la vischiosità l’attesa l’ansia il tragicomico, e invece andare via da qui mi dispiace. Perché nell’inerzia di queste ore sul confine tra due stati c’era sì disagio, ma anche qualcosa di liberatorio, come se invece di trovarci in un’impasse avessimo raggiunto la nostra meta: come se la nostra meta fosse l’impasse.”

Tecnicamente l’impasse è una situazione che non consente vie di fuga, in questo caso diventa uno strumento con il quale confrontarsi. Perché senza una via di fuga è necessario bloccarsi e fare altro, affrontare la situazione, prendere atto di ciò che non è. L’impasse genera un blocco davanti alle possibilità che non si realizzano, ma che di fatto esistono, infinite e irrealizzabili. Cosa sono queste possibilità che non si danno in manifestazione? È il darsi del mondo in forma negativa, un dasein che si ribalta.

Questo darsi, che è un darsi nella forma della privazione, avviene in luoghi specifici, non a caso è utile portare all’interno del discorso l’intuizione avuta da Marc Augé sui non-luoghi, o forse ancora con più precisione su ciò che resta dei luoghi distrutti, naturale compimento del discorso sui non-luoghi: «Contemplare le rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma fare esperienza del tempo, del tempo puro».

È nel tempo che quindi avviene il discorso di Vasta, che tuttavia, come abbiamo detto, si sottrae al tempo nella forma lineare. Per capirlo è necessario approfondire, in Absolutely Nothing, questo discorso sul rapporto tra macerie e rovine:

“Continuando a discutere ci troviamo a ragionare sulla diversa sensibilità, tra Stati Uniti ed Europa, nei confronti delle rovine. In europa gli spazi in rovina sono stati museificati, incorniciati e storicizzati; negli Stati Uniti lo spazio distrutto è invece comune, laico, normale. Al posto del museo, che in Europa conserva le rovine elevandole a emblema di un tempo passato pieno e profondo, negli Stati Uniti c’è qualcosa di simile a una frequentazione bassa e quotidiana, prosaica e abitudinaria: non delle rovine – chiarisce Ramak – ma delle macerie.”

Che differenza intercorre tra rovine e macerie ce lo spiega anche Marco Belpoliti ne L’età dell’estremismo partendo da Hannah Arendt:

Hannah Arendt in un breve scritto, apparso in inglese nel 1950 su una rivista ebraica, «The Aftermath of Nazi Rule. A report from Germany», racconta del suo viaggio in Germania, da cui era fuggita in quanto ebrea, e fa una serie di acute riflessioni sulle rimozioni dei tedeschi e sulle macerie. Racconta che le persone «si scrivono cartoline raffiguranti cattedrali e piazze del mercato, edifici pubblici e ponti che non esistono più». La filosofa nota riguardo ai suoi connazionali come «l’indifferenza con cui si muovono fra le macerie si rispecchia nel fatto che nessuno porta il lutto per i morti e nell’apatia con cui essi reagiscono, o, piuttosto, non reagiscono al destino dei profughi che vivono tra loro». Questa «mancanza di emozioni, o per lo meno questa aperta durezza di cuore, talvolta celata sotto il velo di un facile sentimentalismo», è il sintomo del loro rifiuto di fare i conti con ciò che è accaduto, con il nazismo ma anche con la distruzione provocata dagli aerei alleati.”

E continua spiegando che:

Walter Benjamin fa del frammento e del non-finito la condizione indispensabile per descrivere l’epoca presente, epoca di rovine. Egli scrive il suo monumentale «brogliaccio» di citazioni e note proprio alla vigilia di quella guerra che farà dell’Europa un continente di macerie. Il metodo seguito da Benjamin, nell’abbozzare quello che avrebbe dovuto essere un saggio alla ricerca delle radici del Moderno, è fondato sul non-finito. Benjamin aveva pensato, e in parte realizzato, una sorta di montaggio letterario, composto di citazioni, frasi, riferimenti, vera e propria raccolta di «rifiuti» letterari e filosofici, osservazioni linguistiche e riferimenti poetici: «Creare storia con gli stessi detriti della storia».

[…]

Le rovine sarebbero un segno di vita, qualcosa che si oppone alla «fine della storia», che è il destino verso cui si avvia la «spettacolarizzazione del mondo». Nel futuro non vi saranno più rovine perché non vi sarà più il tempo di produrle. Per questo, continua Augé, «sono il culmine dell’arte nella misura in cui i molteplici passati ai quali esse si riferiscono in modo incompleto ne raddoppiano l’enigma esacerbandone la bellezza».”

Questo rimando a Benjamin esplicita ancora una volta la sensazione di catastrofe che giace sulle cose, sulle macerie, e il rapporto tra il tempo e gli oggetti. Le macerie rimandano al futuro, al modo in cui ce ne si dovrà liberare, le rovine rimandano al passato e al tempo che portano all’interno del loro stesso essere rovine. Ed è a questo punto che si inizia a comprendere il valore dell’estetica come forma stilistica, quando Vasta scrive:

“Hai presente, mi domanda Silva osservandomi fotografare con telefono un tabellone metallico che sembra essersi liquefatto sotto il sole, quando ti dicevo che ti piace il disastro?
Rinfilo il telefono in tasca e la fisso: mi sento spiato nel pensiero.
Non è una critica, continua lei, ma se te ne rendi conto è meglio. Dopotutto l’idea di viaggiare attraverso spazi abbandonati è tua, e non penso sia un caso.
No, dico, certo che non è un caso, di sicuro il disastro mi attira per ragioni culturali che–
No, mi interrompe Silva, la cultura non c’entra. Le ragioni sono originarie. Psichiche e sensoriali. La tua immaginazione è fatta a forma di catastrofe.
In un certo senso, dico, può darsi che sia–
Davanti allo spazio distrutto tu stai bene, mi interrompe di nuovo.”

La distruzione, con la successiva creazione di rovine, è una cifra stilistica, che potremmo far risalire direttamente a Benjamin lì dove il non-finito diventa un lavoro sul tempo come strumento di narrazione. E così i singoli capitoli di questo testo diventano rovine di un viaggio che trasformato nella forma libro non è più il viaggio compiuto, ma ciò che resta. Questo spostamento dalla realtà alla finzione è lo stesso slittamento che Vasta fa compiere alle persone: Silva, Ramak Fazel e Vasta stesso diventano dei personaggi, non più delle persone, e questo è in sé uno strumento già utilizzato spesso in passato da molti scrittori, ma è sul lavoro di Coetzee che bisogna commisurare questa via percorsa da Vasta.

Coetzee scrive parecchie delle sue idee sull’ideologia vegetariana (che lui persegue con fermezza da anni) attraverso un personaggio che si chiama Elizabeth Costello e che, in quanto scrittrice affermata in tutto il mondo, è relatrice in diverse conferenze in giro per il mondo. Questo stratagemma permette a Coetzee di mettere uno scudo tra sé e le eventuali critiche che le teorie enunciate provocherebbero, perché le parole sono state dette da un personaggio di finzione, non da lui direttamente. Ogni critica sarebbe la critica a un personaggio letterario, e la letteratura è quel campo nel quale può accadere tutto e si può dire tutto.

Tuttavia questo stratagemma non ha solo la funzione di difesa, ma anche la capacità di sfruttare al meglio la persuasione come strumento di empatia con il lettore. Entrare in una storia permette di comprendere con maggiore forza le idee di un personaggio, entrare in sintonia con lui o lei, in modo da divulgare la non-violenza nei confronti degli animali.

Così Vasta stacca Silva e Ramak Fazel dal loro essere persone reali, esistenti e li trasforma in personaggi, per costruire un sistema narrativo fondato sulla finzione per poter dar vita, con maggiore forza, anche ad altri personaggi che entreranno e usciranno di scena in pochissimo tempo. Sono personaggi dei quali sono presenti anche le foto realizzate da Ramak Fazel, tuttavia il loro modo di entrare nella storia si fonda sul linguaggio, e Vasta lo dice chiaramente:

“Pensate a oggi, dice Ramak. Joe a Daggett, Bill a Bagdad Café e adesso, qui, Jeremy. Pensate a quello che hanno fatto.
Ponti?, fa lei.
Hanno raccontato.
Sì, dico.
Perché?, domanda Ramak.
Perché?, ripete Silva già spazientita.
Sì, Perché hanno raccontato?
Non lo so, dico. Joe perché gli piace, credo, Jeremy per lavoro, Bill perché non ha altro da fare.
Hanno raccontato per collegare dice Ramak. Qualcosa che sta loro a cuore.
Cioè?
Quello che è accaduto e quello che non è accaduto.”

Ed ecco che questo passaggio dal lavoro sul tempo, al lavoro sui personaggi porta direttamente a uno dei temi fondanti del libro: il rapporto tra finzione e realtà. Scrive Vasta:

“L’ordine di realtà che ne discende è ancora una volta intermedio e quietamente ambiguo: il falso non si oppone al vero, tra i due termini non c’è conflitto, nessuna compenetrazione o reciproca esclusione: dalla scenografia western affiorano frammenti sparsi dell’allestimento; dai personaggi in scena – in sé già ben poco strutturati – trapelano le persone: ma piano, dolcemente, come un rossore. Ed è per questo che quando dal portico di un negozio di abbigliamento western Ramak i fa segno di raggiungerlo e mi propone di farmi fotografare vestito da cowboy, contraggo l’amor proprio alle dimensioni di un sassolino, vado sul retro, indosso la parte anteriore di un panciotto marrone che si allaccia con un paio di cinghie, pantaloni di panno grigio assicurati allo stesso modo, una lunga palandrana color crema, lo Stetson nero e un cinturone lasco con la pistola che batte l’osso iliaco, il fazzoletto celeste annodato intorno al collo, e in fondo a tutto, per proteggere le scarpe, le uose in vachetta, e appena rientro e mi metto in posa rinsecchito brandendo la pistola con la sinistra e appoggiando la canna del fucile sulla spalla destra, dentro il cranio, come una mosca intrappolata nel bicchiere, prende a circolare la frase È ridicolo come ti sei bardato per questo mondo.”

Il passaggio tra il Vasta persona e il personaggio avviene sotto gli occhi del lettore e si compie in una mascherazione minuziosa e raccontata sino al compimento: È ridicolo come ti sei bardato per questo mondo. Questa frase è una citazione presa dai diari di Kafka e che Kafka utilizzava però per descrivere se stesso, per parlare a sé, verosimilmente nella creazione di un sé che mostrava l’incapacità di affrontare il mondo stesso, nella misura in cui “La vera via attraversa una corda che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra destinata più a far inciampare che a essere percorsa.” Anche questo aforisma di Kafka mostra in sé una complessità evidente e una non esaustività di comprensione, tuttavia la misura della questione pare essere la stessa. Ciò che guida è anche ciò che fa inciampare, Ciò che veste è anche una bardatura ridicola. C’è qualcosa che si mostra, ma non c’è il modo per guardarlo. C’è la realtà, ma la finzione è l’unico modo per affrontarla.

Questo problema del rapporto tra realtà e finzione mostra l’ultimo passaggio che seguirò dei tanti possibili per affrontare questo libro, e cioè l’essere nel mondo. Il linguaggio inizia a diventare Heideggeriano per necessità, un essere per la morte, scrive ancora Vasta:

“la presenza, dico.
Quale presenza?
Da un paio d’anni a questa parte ho qualche problema con la mia presenza.
Ah, fa lui e poi tace.
Passano alcuni secondi, di nuovo lascio girovagare la freccetta sul monitor.
Cosa vuoi dire? mi chiede.
Non so spiegarlo bene.
Prova.
Mentre ci penso scrivo su Google presenza e leggo le definizioni: essere presente, stare in un determinato luogo, poi il manifestarsi, il cospetto, la vista, l’esserci.
Esserci, dico, è complicato.
In che senso?
La mia presenza si sta polverizzando.”

Questo passaggio riannoda il filo della questione, la persona diventa personaggio, il personaggio diventa rovina, il tempo è lo strumento estetico di questo racconto. Lì dove lo strumento narrativo è funzionale alla costruzione del sé immaginario. L’esserci è complicato. In questo senso Absolutely Nothing è anche ciò che rimane, la destinazione di tutto, ma è anche un luogo narrativo che scaturisce nel progettare la scrittura per la morte, per quello scintillio della fine che fa risplendere le rovine a distanza di centinaia e centinaia d’anni.

 

 

Bibliografia Minima

G. Vasta, Absolutely Nothing, Quodlibet Humbolt, 2016.
M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, 2004.
M. Belpoliti, L’età dell’estremismo, Guanda, 2014.
J.M.Coetzee, Elizabeth Costello, Einaudi, 2004.
W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1995.
F. Kafka, Aforismi e Frammenti, Bur, 2004.
M. Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, 2006.

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